“Gentile Signora, suo figlio durante la mensa ha colpito con un pugno il suo compagno di tavolo”. Leggo il diario e mi viene un colpo, poi come al solito il cervello si affolla di pensieri in libertà, paragonabili a una bella spaccata a biliardo che rimbalza sulle sponde della scatola cranica con sufficiente potenza da farmi perdere l’equilibrio.
Ci sono stati morti o feriti? Le poche righe della maestra – assai laconiche – mi lasciano in un mare di agitazione. Chiedo spiegazioni al giovane delinquente e cerco a mia volta di spiegarmi l’accaduto.
Pare, a una rapida ricostruzione dei fatti, che il virgulto sia stato provocato, abbia temuto di essere colpito dall’amichetto che, non essendo uno stinco di santo, non è nuovo a scherzetti di vario genere. Pare quindi che la mia tenera progenie sia partita preventivamente con un gancio giunto perfettamente a segno.
La mia anima si dibatte tra due quesiti, volti a schierarmi come educatrice: la chioccia preferirebbe un figlio che si difende a uno che le prende? La madre in cui prevale la coscienza civile vorrebbe uno che non le dà e non le incassa?
Facendo la debita ramanzina, mi appello a tutto lo scibile morale comprensibile a un bambino di terza elementare: i vangeli, gli eroi greci, i “non si fa” che mi sono sorbita io stessa in tenera età. dopo qualche bella accapigliata con i compagni. Sfodero tutto il repertorio completo.
Eppure non sono convinta. Qualcuno si ricorda come finiva la storiella della capra e dei cavoli? Come la metto d’accordo la mia vocina interiore, pacifista, con quella che dice di non porgere sempre l’altra guancia?
La sera, la risposta giunge con un messaggero volante, nemmeno mi avesse bussato alla porta Ermes in persona; lui sta guardando Spiderman e, in una battuta, lo zio Ben – dando a Peter una bella strigliata analoga alla mia – dice “quel ragazzo Flash Thompson, probabilmente si meritava quello che è successo ma il fatto che tu sia in grado di batterlo non ti dà il diritto di farlo. Ricorda sempre, da un grande potere derivano grandi responsabilità”.
Riflettendo sul fatto che, come madre moderna, sono appena stata costretta a trovare risposte educative nei personaggi della Marvel, mi vengono i brividi.
Quando ero piccola, c’era ancora il babau dei vigili – supportati dall’immagine dei gendarmi di Pinocchio – che portavano in prigione chi si comportava male. Ogni mattina, andando a scuola, camminavo lungo le inferriate della casa circondariale grigia come un cielo d’inverno. Ricordo che a volte i detenuti facevano uscire grandi fazzoletti bianchi dalle bocche di lupo e li sventolavano nell’aria libera. Era un’immagine carica d’angoscia che mi faceva pensare sempre: “Lì non ci si deve andare”.
Quando un giorno mi sono trovata a usare uno spauracchio del genere – presa dalla disperazione in mezzo al traffico, in balìa di due pesti urlanti, devo aver ventilato persino l’intervento della SWAT se non la piantavano – mi sono vergognata come una ladra. Ho avuto la netta percezione di mentire e il terrore che capissero al volo che stavo promettendo una punizione fasulla. Se fosse successo, addio credibilità materna.
“Che minaccia ridicola” mi sono detta – un secondo troppo tardi – “I miei figli vedono tutti i giorni, sotto la loro casa, che chi dovrebbe vigilare si gira dall’altra parte pur di non vedere cosa combinano i pusher e di cosa si fanno i ragazzini durante la Movida.
Dove lo trovo un esempio facile e autorevole cui fare riferimento di questi tempi? E perché mi viene in mente solo Capitan America? Forse perché educare i figli è una missione da Wonder Woman?