Ci sono libri in cui inciampi. Questo è quanto accaduto, quasi letteralmente, con La Repubblica delle farfalle di Matteo Corradini, arrivato assieme a una pila di confratelli nel 2015, a ridosso del Giorno della Memoria. L’ho raccolto in un momento in cui, abbastanza annoiata, in mezzo a titoli e autori al limite della prevedibilità, ha colpito la mia attenzione il fatto che fosse un libro sulla Shoah per ragazzi.
Non esagero dicendo che è stata una rivelazione: non sarei qui a parlarvene e non avrei nemmeno cercato Matteo Corradini, braccandolo per un’intervista pirotecnica, interrotta da gallerie infinite, messaggi e richiamate a singhiozzo, mentre l’autore si spostava tra l’ultima scuola in cui aveva tenuto una conferenza e la prossima scuola, popolata di ragazzi con gli occhi pronti ad aprirsi sulla storia e le orecchie ben tese ad ascoltare le parole di Matteo.
Perché – nonostante le intenzioni dell’autore, che leggerete – La Repubblica delle farfalle, secondo me, è uno dei migliori “libri guida” per i giovani lettori in procinto di partire per un percorso di approfondimento storico con i propri insegnanti o che, fisicamente, forse si stanno preparando per la classica gita di classe, in Europa o in Italia, nei luoghi che conservano la memoria del genocidio ebraico.
Sono tanti i ragazzini che ogni anno vanno a Praga e tutti visitano il ghetto. Poco lontano, sorge la cittadella asburgica di Terezìn, eretta come fortezza in onore dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria alla fine del Settecento: Terezìn è il luogo in cui Matteo ha ambientato il racconto e dove, tra il 1941 e il 1945 furono internate 155 mila persone, di cui circa un decimo furono bambini e ragazzi. Alla fine della guerra ne erano rimasti in vita 142.
Un gruppo di ragazzi si riunì di nascosto, tra il 18 dicembre 1942 e l’agosto 1944, per dare vita a un giornale che fu chiamato Vedem (Avanguardia). Vedem produsse più di 800 pagine, molte delle quali sono ora conservate nel Memorial di Terezìn e nel museo Yad Vashem di Gerusalemme.
La Repubblica delle farfalle è il romanzo di quei ragazzi.
Un intento didattico voluto o casuale?
M.C.: Il libro non aveva un intento didattico specifico, è nato come romanzo, basato su una storia vera. La mia preoccupazione era soprattutto quella di rispettare la storia di quei ragazzi di Terezìn. Ho studiato Terezìn per otto anni prima di scrivere: non è stato un lavoro di getto. Quando t’impegni in un lavoro così – in termini di coinvolgimento emozionale e di ricerca – affronti un grosso rischio personale: rischi che la tua passione ti faccia andare oltre, rischi di metterci troppo (emozione, contenuti). Questo, in un romanzo si può sentire. Il libro rispecchia esattamente com’era Terezìn. La didattica è una conseguenza di questo rispetto della storia. Può facilmente diventare un libro didattico, proprio perché la documentazione di partenza è stata molto forte. Se l’opera si appoggia sulla concretezza della realtà, è più facile creare un percorso didattico. Paradossalmente però, quando giro nelle scuole, non cito mai il libro, immagino per una forma di pudore.
Da che età ne consiglieresti la lettura?
M.C.: Se un ragazzo è un buon lettore, dalla prima media. Non ho scritto La Repubblica delle farfalle pensando a un’età specifica e mi fa piacere che tra gli editori stia scomparendo questo genere d’indicazione – anche se ovviamente esistono collane dedicate a ogni fascia d’età. Ci sono libri bellissimi che possono piacere a tutti, penso soprattutto a certi illustrati che possono essere guardati con grande piacere sia da un adulto sia da un bambino.
Come spieghi ai ragazzi quello che hai scritto, quello che è successo?
M.C.: La fine dei ragazzi di Terezìn è stata quella che tutti sanno – non è stata diversa da quella di tanti altri – è la loro vita che è stata diversa. Non è interessante come sono morti ma come sono vissuti. Nelle scuole parto da li: racconto storie di loro coetanei. Negli incontri racconto le vite, perché è quando racconti la vita di qualcuno che incontri la persona. E poi racconto la bellezza dell’amore e della vita che vince sempre anche in un posto come Terezìn. Ricordo un episodio accaduto in una scuola media: una ragazzina mi ha rimproverato di aver scritto una scena che l’aveva colpita molto e che non avrebbe mai voluto leggere. È una scena in cui alcune ragazze amoreggiano e a una spuntano le mutande. Mi ha fatto sorridere perché era la spia di come la sensibilità e il grado di sopportazione sia soggettivo.
Leggendo La repubblica delle farfalle ho associato mentalmente i ragazzi di Terezìn ai Lost Boys di Peter Pan. Com’era crescere senza la tutela degli adulti?
M.C.: Nel ghetto di Terezìn, la scuola era diventata un momento fortissimo di aggregazione e condivisione, di massima espressione. Erano molto soli e il fatto di aiutarsi tra di loro, li ha rafforzati, non avevano alternative. L’educazione dei più piccoli passava attraverso i più grandi. Capivano molte cose da soli. Nel ghetto esistevano tutti gli aspetti della vita, anche l’amore e il sesso. Anche se i nazisti avevano ordinato di non far nascere bambini, tuttavia i bambini nascevano di nascosto.
Molti fatti sono narrati a mezza voce, li hai lasciati più che altro intuire. Il libro è intriso di poesia: pensi che in questo modo sia più comprensibile?
M.C.: Sì. I ragazzi hanno nel loro immaginario una facilità simbolica enorme. La poesia non serve a se stessa ma è funzionale alla storia, che non deve essere editata, ma è possibile trovare significati simbolici più forti dell’accaduto.
Ad esempio, quando il protagonista guarda la luna? Impossibile non pensare a Leopardi…
M.C.: (ride)… non era intenzionale ovviamente, sarebbe stato troppo, non avrei osato ma forse è inevitabile, nella nostra cultura, associare a Leopardi un discorso alla luna! La luna è simbolica e misteriosa. Guardare la luna dalla finestra della casa, fa vedere al protagonista (senza nome) le cose con occhi diversi. Al buio noi stessi cambiamo. Lui si vede per caso riflesso nel vetro, che di giorno non aveva notato: lì per lì, non si riconosce. I ragazzi erano cambiati: erano dimagriti erano stanchi, ma è anche un momento di straniamento, di lacerazione interiore, di cambiamento nell’anima.
Com’è l’Europa di oggi?
M.C.: Stiamo meglio, abbiamo aperto gli occhi – tanti non hanno mai nemmeno guardato il male – ma i dati dicono che l’antisemitismo strisciante è in aumento. È un fenomeno sociale, non politico. I pregiudizi e il razzismo colpiscono tutti non solo gli ebrei. Conoscere la storia serve a difenderci dal male, che non risiede in un altro “cattivo”, ma è presente in tutti noi. La crisi fa rinascere questo male perché alza la soglia di difesa, che non è razionale. Il male attacca per prime le persone più deboli, meno preparate culturalmente e psicologicamente. Ricordiamoci che la storia non si ripete sotto la stessa forma, ma si ripete.
Qual è stato un momento, legato al libro, che ti ha particolarmente emozionato?
M.C.: Il 27 gennaio 2015 sono stato impegnato a Praga per il Giorno della Memoria organizzato dalla European Jewish Commission. Tra i miei compiti ce n’era uno più speciale degli altri: scrivere il discorso che avrebbe tenuto sir Ben Kingsley davanti al presidente della Repubblica Ceca, a Martin Schulz del Parlamento Europeo e ad altre autorità politiche e religiose. Kingsley ha anche letto una piccola parte del mio romanzo La repubblica delle farfalle. È stata per me un’esperienza particolarmente forte e impegnativa. Vi segnalo che oggi ne parla il Post, con la possibilità di vedere il video (in inglese) del discorso.
Terminiamo con un gioco. Finisci la frase: “Se la letteratura è un mezzo…”.
M.C.: Di sicuro m’interessa l’altra metà!
Matteo Corradini è nato nel 1975. Laureato in Lingue Orientali con specializzazione in lingua ebraica, si occupa di didattica della Memoria. Fa parte del team di lavoro del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah.