Quando incontri per la prima volta Florencia Martinez, rimani folgorata dalla sua empatia, dall’energia vitale e dall’umanità. Se già l’arte è capace di raccontare l’animo umano e lo spirito dei tempi, lei si è concentrata su un mondo delle donne che si nutre di poesia e memoria.
Florencia Martinez è nata a Buenos Aires nel 1962, dopo un inizio come pittrice espressionista è stata definita la Lucio Fontana contemporanea. In occasione di Expo Milano il consolato argentino l’ha invitata a rappresentare l’identità del suo Paese, fatta anche di italianità. La madre di Florencia, infatti, è di origini varesine, fatto che la spinge a trasferirsi in Italia nel 1990. Per anni lavora come illustratrice degli inserti di Repubblica, mentre prosegue la sua ricerca artistica.
Florencia Martinez rappresenta la commistione di due culture e la globalizzazione intesa nel senso migliore del termine. Attraverso lo studio di tecniche diverse – che vanno dalla fotografia alla pittura fino alla tecnica mista, la scultura e la performance – affronta tematiche prettamente femminili e lavora su frammenti di memoria che si incastrano una dentro l’altro come le bamboline di una matrioska.
Se avrai occasione di osservare più approfonditamente quello che crea, ti accorgerai che la tecnica che la rende più riconoscibile è l’utilizzo di materiale tessile, inserito ovunque.
Le sue opere – capaci di creare una forte empatia con chi guarda – sono sorprendenti, stratificate di significati e sempre belle, anche quando sono forti al punto da creare uno shock nello spettatore.
Hai un rapporto molto stretto con la poesia. Nella tua opera non c’è confine tra la parola e le mani.
La poesia è uno strumento per dare un senso alla mia esistenza. Nel periodo successivo alla dittatura in Argentina – caotico e molto difficile – ho ritrovato nella poesia di Kavafis, Eliot, Cummings e Pizarnik i valori per cui vale la pena vivere. Uno di questi valori è la ricostruzione della memoria storica.
Molte mie opere infatti riprendono il titolo di poesie oppure le immagini sono circondate da parole ricamate. Le parole non si riferiscono necessariamente al contenuto del quadro ma hanno piuttosto lo scopo di creare uno spazio mentale nello spettatore, per predisporlo alla percezione personale.
Da dove deriva l’energia femminile che emana il tuo lavoro?
Prendo ispirazione da memorie pubbliche e private, dalle storie che mi vengono raccontate, dalle informazioni che trovo negli archivi, dalla politica e dalle questioni sociali femminili. Cerco nei vecchi cassetti, nelle soffitte, nei vecchi album di fotografia sia di famiglia sia degli amici. Sono sempre alla ricerca di oggetti e di storie che aspettano di tornare alla luce sotto una forma nuova.
In molte opere – soprattutto i nudi – contesti un fatto che nessuno vuole ammettere: ancora oggi le donne fanno fatica a imporsi come soggetto e sono considerate piuttosto begli oggetti da esposizione.
Se da un lato la donna ha potuto ottenere un nuovo ruolo nella società e ha potuto valorizzare le proprie capacità, dall’altro lato questo ha provocato una frattura con il mondo patriarcale e ha creato spaesamento.
La serie di lavori sul corpo della donna volevano rielaborare il dato evidente della speculazione biologica sul corpo femminile e la sua mercificazione. Le donne sono spinte a non invecchiare, a sottoporsi a incredibili torture pur di allontanare una specie di “data di scadenza” impressa su varie parti del corpo. Anche nel campo dell’arte le donne sono quotate sempre meno degli uomini e nei musei di tutto il mondo la percentuale di presenza femminile è sempre minore.
Una delle soluzioni tecniche che preferisci è la stampa e la pittura su tela ricamata o l’utilizzo di materiali tessili. Perché?
Come nella memoria i ricordi si stratificano e si accavallano, così il tessuto si può sovrapporre e diventare simbolo della coscienza e dell’esperienza umana. Il tessuto è una materia viva. Porta con sé il suo intreccio, il suo colore, la sua trama e raccoglie la polvere del tempo. Io non faccio altro che interpretare quello che dice.
Ad esempio, la serie degli abitini che mi appartenevano da piccola e che ho ritrovato in soffitta sono diventati dei quadri. Ho ricamato su ciascuno delle date fondamentali della mia memoria storica (la nascita, l’inizio della dittatura in argentina, il trasferimento in Italia N.d.A.). lavoro anche con la cucitura, che è sempre ben visibile come una cicatrice e che non rappresenta solo la bellezza ma anche la fatica di un percorso e il filo che collega i ricordi.
Donna, artista, madre: quale parola ti appartiene di più?
A un uomo questa domanda non la fanno mai. Non ci sono frontiere tra la donna e l’artista, dentro di me sono un tutt’uno. Lo stesso vale per la madre. Non credo di esserlo solo perché lo sono biologicamente ma perché noi donne siamo madri sempre, anche quando non abbiamo figli, perché facciamo crescere qualsiasi cosa.
Ti senti adottata dall’Italia?
Il 40% degli argentini è di origine italiana. Io sono un’immigrata di ritorno. A casa mia, a Natale, si mangiava all’italiana pasta con i broccoli e quando ero lì non mi sentivo Argentina. Mi sono sempre sentita un’immigrata, ovunque fossi.
Quale ricordo ti accompagna sempre? Sei molto legata ai dettagli della vita famigliare. Dalle tue opere escono ore di racconto.
Dico sempre che io vivo nel presente pensando a quello che ricorderò domani. Tutto ciò che è memoria, personale o di altri, si amalgama dandomi il materiale da utilizzare per costruire la mia identità. Il ricordo più vivo è quello dell’ambiente femminile in cui sono cresciuta. Nella memoria ritrovo il calore degli affetti. L’immagine più potente invece è quella della abuela e l’immagine della madre che non molla mai per arrivare alla verità come le grida delle donne in Plaza de Mayo.
All’opera di Florencia Martinez è dedicata la rivista monografica OrNotMagazine n.12 di giugno 2016. Puoi trovare un condensato del suo manifesto artistico nella Pralina n. 43 di Sergio Mandelli.
[Intervista pubblicata su donnad.it]