La mia amica Valentina è una fautrice instancabile del social eating.
Dopo un articolo apparso su Food24 di il Sole24ORE, ecco che anche il LaCucina del Corriere riprende la notizia della simpatica signora Leonilda, che a 96 anni apre il proprio home restaurant.
A questo punto occorre fare dei distinguo: Valentina l’ha sempre inteso nella maniera originaria – condividere le spese di una cena con gli amici, allargando di volta in volta le conoscenze dei partecipanti appassionati di ottimo cibo e alta cucina – fino a quando è diventata così brava e ricercata da “mettersi in società” con un’amica e impegnarsi una sera a settimana. Una volta a casa dell’una, una volta a casa dell’altra, impiegando buona parte della tempo a pianificare menù, fare gli acquisti, cucinare.
Lei mi ha sempre raccontato di farlo soprattutto per passione, per conoscere persone nuove, per mettere in pratica tutto quello che ha imparato in un milione di corsi per dilettanti, tenuti però da chef-rock star. E il guadagno? Giusto stamattina mi confermava che, pagate le spese vive, non rimane attaccato molto, un rimborso simbolico del tempo speso e che lei impiega volentieri, per non annoiarsi. Qualche volta addirittura va in perdita, ma non importa, purchè la cucina rimanga un bel passatempo.
Gli articoli degli illustri quotidiani – e le campagne abbastanza aggressive sui social, fatte dalle piattaforme che si occupano di questo business – tuttavia, fanno balenare una diversa opportunità, quella di creare un home restaurant a portata di click, senza controllo alcuno di qualsivoglia autorità.
Il sospetto che dietro iniziative, cominciate come stimoli culturali e gastronomici, si celi un modo per far quadrare i conti di casa in un periodo in cui molti sono alla canna del gas e altrettanti si sentono i giovani eredi di Marchesi, é forte.
Come sostengono alcuni, si tratta di scompigliare un po’ le carte, di portare una ventata di novità in un clima economico stantio, ma a me i conti non tornano.
Dicono: Volete cucinare a casa? Basta che non guadagnate più di 5.000 euro per essere a posto con il fisco.
Io dico: Ma su che basi é possibile fare un calcolo del genere? E chi lo farà? Come conteggiare entrate e uscite di un posto che sulla carta non esiste, accessibile solo a chi viaggia su web o ascolta i passaparola?
Considerate che chi ospita a casa propria, non ha nessuna delle spese fisse e dei problemi gestionali che a volte determinano la fortuna di un ristorante: un appartamento che si improvvisa “localino esclusivo” non paga nemmeno le tasse sui rifiuti correlate alla propria attività. Per non parlare delle spese assicurative, sanitarie, alle certificazioni di conformità, varie ed eventuali: chi frequenta il circuito degli home restaurant, deve anche sapere che lo fa a proprio rischio e pericolo, dal momento che un privato non è tenuto a sapere – giusto per fare un unico esempio, rozzo ma comprensibile – come si sgusciano le uova fresche o quando è preferibile usare ovoprodotti.
“Tutte le volte che vai a toccare gli interessi di categoria, vien fuori un putiferio” mi dicono.
Tutte le volte che in questo paese di applicano pesi e misure differenti, facciamo un passo in più verso il caos, dico io. Tana libera tutti.
Sono contraria all’attività ludico-gastronomica della mia amica Valentina? Nemmeno un po’.
La ragion d’essere del social eating è il “social”: nasce perché si vogliono conoscere persone nuove e le si cerca tra coloro che condividono gli stessi interessi, per condividere una buona cena e una buona conversazione. Nel social eating la cena non si paga, si dividono le spese, quindi non è a scopo di lucro.
Nell’home restaurant, la tentazione di guadagnare è forte, anzi specifica: diventi un piccolo imprenditore di te stesso, delle tue presunte capacità culinarie e comunicative, facendo concorrenza sleale a chi ogni giorno vive sulla sua pelle le difficoltà di un mestiere bello e impossibile, assai preso di mira dalla burocrazia.
Inneggiare all’ampliamento dell’offerta, incensare gli home restaurant come la grande via alla buona cucina a costo ridotto (e possibilmente esentasse) credo sia uno schiaffo molto pesante a tutti quelli che lavorano quotidianamente nella ristorazione, cercando di tenere alto il livello qualitativo.
Come in altri settori, un po’ di chiarezza non guasterebbe.
marina malvezzi
17 Aprile 2015 at 11:02Cara Olivia.
Concordo in pieno su quello che scrivi.