Come si fa a insegnare a cucinare ai propri figli?
Non lo so. Infatti, insegno ai figli degli altri.
Facezie a parte – lo sapete che faccio sempre la spiritosa – è abbastanza noto come insegnare alla prole una qualsivoglia delle proprie passioni sia impresa ardua, se non impossibile.
Non ti prendono sul serio. Trovano mille scuse. Non ti ascoltano ma, soprattutto, noi genitori abbiamo la tendenza ad avere i nervi a fior di pelle. Vorremmo tanto averli fatti nascere “imparati” e invece, a volte, dobbiamo ammettere che sono “acerbi”, tenero eufemismo per capre senza speranza.
A me è successo che sia Grande sia PiF – fin da piccolissimi – abbiano subito il fascino della cucina senza tuttavia avere apparentemente la minima voglia di applicarsi, nemmeno quando proponevo di preparare qualcosa d’allettante.
Certo, abbiamo fatto i biscotti insieme e hanno avuto il permesso di gettare pasta ovunque, fuor che nella trafila. Certo, abbiamo fatto caramelle e dolcetti e omini con la pasta della pizza. Abbiamo ospitato gruppi di studio tra i fornelli e portato a termine compiti impossibili – come realizzare, in un solo pomeriggio, un presepe di pan di zenzero da portare a scuola – ma non hanno mai mostrato interesse nella preparazione di pasti “normali”. Troppo bello avere qualcuno che ci pensa e che propone persino un menù á la carte in base ai giorni di mercato, roba da rendere orgoglioso Monsieur Bocuse, pace all’anima sua.
Questo fino a quando, un bel giorno, li ho esclusi dai corsi per ragazzini (leggi qui).
Allora PiF ha cominciato la litania: “Ma perché io non posso venire?”
Risposta: “Perché i posti sono pochi e tu a casa non hai voglia nemmeno di riempire la brocca dell’acqua. I ragazzi che vengono, lo fanno per imparare qualcosa, non per fare cagnàra con gli amici”.
Grande, invece, l’ha presa sul personale e, pragmaticamente, ogni giorno ha cominciato a chiedermi come fare le cose fondamentali, il sugo, le uova, una bistecca, il risotto.
Per aiutarlo, dal momento che torna a casa da scuola mentre io lavoro, ho smesso di lasciargli il pranzo pronto, sostituendolo con “semilavorati” e istruzioni.
Comunichiamo via WhatsApp. Quando arriva a casa, riceve una serie di fotografie con il procedimento. Ad esempio, fotografo il ripiano del frigorifero dove raggruppo gli ingredienti, gli utensili che gli serviranno, tutto corredato da istruzioni. Una specie di tutorial personalizzato. Non allego le foto per il semplice motivo che sono “ruspanti” (orrende).
Con lui questo metodo funziona ed è giunto ad una buona autonomia.
Con PiF sto cercando uno stratagemma più subdolo, perché non si è guadagnato il soprannome di Piccolo Flagello gratuitamente. Dò per scontato che vincerò io, anche se devo ancora capire come. Per il momento, mi accontento di gongolare quando preferisce invitare gli amici a casa anziché uscire a mangiare la pizza.
Come insegno a cucinare ai miei ragazzi?
9 Ottobre 2018
Previous Post
Crostata di prugne settembrine
Next Post