Nel 2019 ho partecipato con questa favola al concorso letterario Fiabe per un Castello, indetto dall’Associazione culturale “Il Castello” ODV allo scopo di promuovere il Castello di Lari (Pisa).
Astilbe e Frelsus sono stati scelti per essere rappresentati davanti ai bambini delle scuole e sono entrati nella selezione finale, pubblicata per i piccoli visitatori del Castello.
Sono stata felice di scriverla e un po’ emozionata vedendo i disegni di scena di Chiara Macchi. Tutte le tavole sono sotto licenza Creative Commons BY-NC-SA 3.0 IT
Astilbe e Frelsus
Nei secoli passati, i lupi furono cacciati in tutta Europa fino a rimanere isolati in piccole aree nelle foreste del Nord e su qualche montagna sperduta.
Gli esemplari rimasti furono così pochi – e nascosti – che gli umani non se ne preoccuparono più. I lupi lentamente si ripresero i boschi più lontani ma ricordarono la lezione vitale per la loro sopravvivenza: non avvicinarsi all’uomo.
Solo alcuni, giovani e avventurosi, osarono staccarsi dai branchi e – scendendo verso Sud con le compagne – crearono nuove famiglie. Le leggi erano cambiate ma gli uomini no. I lupi non potevano più essere uccisi ma – se catturati – rischiavano di essere privati per sempre della libertà e i cuccioli erano ricercatissimi come animali da compagnia, alla stregua di cagnolini.
Anche se i lupi erano particolarmente attenti ad evitare il contatto con i centri abitati, qualche incidente era inevitabile.
Uno di loro, di nome Frelsus – un lupo solitario e imprevedibile – si divertiva a provocare la rissa in ogni pollaio e in ogni stalla, facendo guizzare la sua ombra nella notte, fuori dalle finestre illuminate del borgo che si stringeva attorno al Castello dei Vicari di Lari. I cittadini erano inquieti e non facevano che brontolare a ogni crocicchio e a ogni tavolo d’osteria, sbattendo sui tavolacci grandi caraffe di vino per sottolineare la loro contrarietà e minacciando di prendere provvedimenti – mettendo mano ai fucili – nonostante la legge lo vietasse.
Lari era un’antica rocca fortificata e circondata da boschi, un tempo nascondiglio dei briganti. I suoi abitanti erano rimasti talmente legati al proprio passato da credere ancora nelle fate e negli spiriti silvani, così alcune creature magiche erano rimaste nei dintorni per far loro piacere.
Il Podestà – sapendo di non avere il potere d’uccidere l’unico lupo vivente in quei luoghi, una bestia che in fondo non aveva fatto altri danni se non far sparire una dozzina tra conigli e galline – si ricordò che qualche pettegolo da sagrato aveva bisbigliato dell’esistenza di una fata che viveva nei pressi dei ruderi dell’antica Chiesa di San Niccolò in Sessana. Escluso l’uso delle armi e delle trappole, non vedeva altra soluzione che affidarsi al soprannaturale e sperare in bene.
Al Castello si vociferava che questa fata, di nome Astilbe, avesse il potere di riportare l’equilibrio, calmando gli spiriti ribelli e consolando gli inconsolabili. Chi l’aveva incontrata raccontava che, guardandola negli occhi, non si riusciva a capire di che colore fossero perché cambiavano rapidamente come le sfumature dei fiori che portavano il suo nome; dopo averla fissata per pochi istanti, dicevano si provasse una grande pace e che – non di rado – si perdesse la memoria dei fatti più brutti della vita.
Tuttavia, si bisbigliava che Astilbe fosse d’umore imprevedibile e che si facesse trovare solo da chi la cercava per uno scopo altruistico; anche rivolgendosi a lei con le migliori intenzioni, le reazioni della fata potevano essere terrificanti e più d’un abitante era tornato a casa con la mente sconvolta, solo per aver posto la domanda sbagliata.
Il Podestà si fece coraggio – proprio lui, che di creature fatate non ne aveva vista mai nemmeno una ed era propenso a credere che il mondo umano e il mondo magico dovessero ignorarsi, per il bene reciproco – e si recò dalla fata.
Astilbe – così come la trovò lo scettico rappresentante del popolo – era sdraiata sul prato, così leggera da non lasciare traccia nell’erba con il proprio peso. Tutti i colori e i suoni della natura sembravano essersi concentrati attorno a lei, che appariva circondata da una nuvola di pennacchi delicati, bianco, rosa, lilla, rosso e malva. I fiori d’astilbe, infatti, crescono come piume pronte a muoversi con grazia al minimo soffio d’aria.
La fata lanciava le dita verso il cielo e si divertiva ad inanellare cerchi di vento in cui giocavano setose farfalle, libellule cangianti e le effimere dalle ali di cristallo, mentre le api intonavano una melodia che faceva a gara con quella dei grilli e delle cicale. Persino le nuvole si dissolvevano e si rincorrevano sopra la sua figura, incuranti dell’obbligo imposto dalle correnti.
Nonostante l’uomo fosse proprio ai suoi piedi, Astilbe sembrava immersa in un mondo di sogno.
Il notabile comincio a tossicchiare e a schiarirsi la gola, dondolando da un piede all’altro come uno scolaretto poco sicuro della lezione. Forse avrebbe fatto ancora in tempo a girare sui tacchi e a tornare in paese, per rivolgersi al macellaio che era anche un noto bracconiere: ci avrebbe pensato lui al lupo, con grande discrezione.
Il tempo di formulare questo pensiero – non privo di viltà – e Astilbe si sollevò con la ferocia di un calabrone, fissando il malcapitato dritto negli occhi.
«Un lupo? Quale lupo?»
Queste furono le parole che egli udì. Non era certo che fossero state pronunciate o fossero risuonate nella sua testa ma, di sicuro, il tono era tutt’altro che gentile.
«Ha fatto del male?», aggiunse la voce.
«Mia Signora», balbettò quello, «per il vero, poco o nulla. Giusto qualche bestia. La gente di Lari tuttavia è spaventata. Mi chiedono una soluzione e io non ne ho. Se poi questo lupo diventasse aggressivo, mi farebbero perdere la testa, forse in maniera letterale. Sono venuto da Voi per cercare aiuto», proseguì, «perché con i vostri poteri possiate allontanarlo o confinarlo nel bosco più profondo, dove non darebbe più preoccupazioni»
Astilbe fece una smorfia disgustata e i suoi occhi guizzarono con il lampo metallico del dorso di una matronnola. «Imprigionarlo nel bosco, dici? Non posso imprigionare uno spirito libero. Una simile azione scatenerebbe forze incontrollabili, peggiori del lupo che temi».
La fata si fece silenziosa, tanto che il Podestà pensò che forse avrebbe fatto meglio a indietreggiare lentamente e rispettosamente, infilare il viottolo che girava attorno alla chiesa sconsacrata e poi tornare a gambe levate a chiudersi nel suo confortevole ufficio nel Palazzo della Cancelleria.
«Andrò a parlare con il lupo. Torna a casa e non farti vedere mai più» sentenziò seccamente Astilbe e il supplice – che si vedeva già perduto – non se lo fece ripetere due volte.
Astilbe era la fata della forza in equilibrio, aveva il potere di guardare la verità nella sua interezza, fatta di bene e di male, di chiaro e di scuro. Non era rimasta per nulla intenerita dalla supplica di un Umano ma aveva visto nella comparsa di un lupo – proprio lì, dove non ce n’erano da più di cent’anni – il segno che aspettava da tempo.
I lupi seguivano le vicende degli uomini e il suono delle battaglie; potevano indebolirsi o piegarsi ma erano destinati a sopravvivere perché il loro potere era legato alla terra e al sangue di cui era stata impregnata. Il mondo magico, invece, era così fragile e bisognoso di bellezza che si stava inesorabilmente ritirando lontano dalla vista degli uomini. Il lupo era arrivato giusto in tempo, pensò Astilbe, prima che i giochi fatati di luce, petali e vento scomparissero. Sarebbe stata possibile un’alleanza e la magia sarebbe stata salva. Intrecciò un laccio sottile – fatto con i suoi lunghi capelli argentei, steli di mela spinosa e la più resistente seta di ragno – poi si avvicinò al bosco.
Frelsus stava dormendo placidamente in una radura ancora scaldata dall’ultimo sole del pomeriggio. Astilbe gli soffiò delicatamente sul muso mentre gli avvolgeva il laccio magico attorno al collo. La bestia cominciò a sognare una fanciulla bellissima che si muoveva leggera portata da un vortice di petali e vide sé stesso uscire dal bosco per raggiungerla. Quando si svegliò era tempo di cacciare ma – ancora scosso dall’irresistibile attrazione verso la creatura fatata che aveva appena sognato – si avviò lentamente verso il limitare della foresta, guidato dal laccio che Astilbe aveva nascosto dentro la morbida pelliccia.
La fata lo aspettava immobile in mezzo al prato, circondata dalle piume cangianti dei suoi fiori.
«Perché mi hai cercato nella foresta mia Fata? Ti ho sognata ancora prima d’incontrarti», disse Frelsus.
«Lupo, i giorni trascorsi vicina ai mortali mi sono venuti a noia. Mi cercano per la mia magia ma dimenticano troppo in fretta la riconoscenza che dovrebbero al nostro mondo. È vicino il giorno in cui non saranno più in grado di vedermi». Poi proseguì: «Mi hanno chiesto di allontanarti dalle case di Lari, di relegarti nella selva più profonda ma non li esaudirò. Ti propongo, invece, un patto: io vivo di luce, sono figlia del Sole ma il mio più grande desiderio è vedere il tuo mondo notturno, dove non posso addentrami a lungo senza perdere le forze».
Frelsus capì che Astilbe era il suo Destino. Era sceso dal Nord seguendo il sottile fuoco dell’avventura che gli faceva bruciare il sangue e rizzare i peli della schiena, annusando l’odore di guerre lontane e di quelle che dovevano venire. Aveva percorso tante terre senza trovare una compagna disposta a correre veloce così lontano; alla fine si era trovato solo, in quel luogo che lo tratteneva con la struggente illusione d’aver trovato una casa adatta a lui. Quando, ogni notte, passava dispettoso fuori dagli usci e si affacciava alle finestre per spaventare i bambini, in realtà voleva cogliere il calore di quella familiarità umana che gli pareva così dolce e così desiderabile. Un tempo, le notti bagnate dalla Luna splendente gli davano un’energia invincibile – il desiderio forsennato di divorare palmo a palmo il mondo – ma ora si sentiva così solo che le corse a perdifiato non gli davano più l’ebrezza che cercava.
«I nostri desideri sono opposti come il giorno e la notte mia Fata. Io ti porterò con me se tu mi farai vivere sotto il tuo sole, accanto a te, come un umano».
Astilbe annuì silenziosa e se ne andò.
Quella notte attese la Luna e raccolse la rugiada d’argento che si concentrava solo nelle coppe dei fiori di enotera. Chiamò a raccolta gli Gnomi e chiese di fondere un anello e forgiarlo con le fattezze di una testa di lupo. Quando fu pronto, impresse su di esso una singola parola magica.
Il giorno dopo, sul fare della notte, Astilbe tornò al limitare del bosco e attese il Lupo.
«Temevo non saresti tornata», disse Frelsus.
«Ti ho portato ciò che mi hai chiesto» rispose lei e, chinandosi con grazia, gli infilò l’anello d’argento alla zampa.
«Ora portami con te e all’alba il tuo desiderio sarà esaudito», poi scivolò sulla groppa dell’animale stringendo forte il laccio.
Frelsus corse come il vento tutta la notte. Corse negli angoli più remoti, dove da troppo tempo non andava. Corse senza rumore per non spaventare le altre creature viventi, perché sapeva che Astilbe voleva vedere tutto, sapere tutto.
All’alba ritornò sul prato di Campodimele, attendendo il suo premio. Astilbe scivolò a terra e recitò quell’unica parola magica impressa nell’anello «LIVLAV», che nella lingua delle fate del Sud significa “senza confini”.
Frelsus si trasformò in uomo e fu libero di seguire la sua fata sul prato, alla luce del sole, senza che gli abitanti del borgo vedessero un lupo da cacciare.
Così, giorno dopo giorno, la fata visse il buio della notte e il lupo reso uomo si sdraiò al sole tra i fiori d’astilbe, inanellando con le dita i refoli d’aria mentre le api suonavano la loro dolce musica.
Com’era stato predetto, con il trascorrere del tempo, fata e lupo sparirono dalla percezione degli abitanti di Lari e del suo Castello. Naturalmente, il più sollevato di tutti fu il Podestà, ancora convinto d’aver sfiorato un precipizio in cui nessun essere umano si sarebbe augurato di piombare. In paese c’era sempre qualcuno pronto a giurare d’aver visto due figure luminose abbracciate nei pressi di San Niccolò o chi diceva che nella foresta corressero altri lupi, tuttavia nessuno sembrava essere veramente convinto di ciò che aveva visto.
Le voci su un mondo diverso da quello quotidiano dei cittadini del borgo si fecero più fioche, diventando favola. E quando finalmente nessuno più credette alla storia di Frelsus e Astilbe, vissero tutti felici e contenti.