La ricetta al cinema: un Mont Blanc per Tilda

10 Novembre 2016
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Non posso entrare a Villa Necchi Campiglio, a Milano, senza vederla rivivere attraverso le immagini di “Io sono L’amore” di Luca Guadagnino, e non posso fare a meno di vedere quel film senza amare follemente la raffinatezza con cui anche il cibo contribuisce alla trama.

Villa Necchi Campiglio

Particolare della sala da pranzo di Villa Necchi Campiglio, Via Mozart 14, Milano. Donata al FAI nel 2001

Ah sì, direte, Tilda Swinton che ha una rivelazione assaggiando enormi e succosi gamberi di Santa Margherita. No.

Le ciotoline inventate da Carlo Cracco? La sua insalata russa chiusa tra due cialde di caramello? No e no.

Mi hanno fatto sorridere, certo, come quando vedi qualcuno che conosci bene ritratto in una fotografia scattata a sorpresa.

L’apoteosi del cibo, inteso come senso e interpretazione della vita borghese, ritratta magistralmente da Guadagnino, è il Mont Blanc.

Riguardate la scena: un vassoio di piccole dimensioni, rispetto alla tavola immensa alla quale viene presentato, arriva in sala da pranzo portato dalla governante. Non c’è una torta sul piatto, festosa e ricercatamente accattivante, bensì una montagna, il Monte Bianco, acuminata di panna montata, sormontata da una semplice candelina.

Lo spirito minimale di un dolce – semplice solo all’apparenza, anzi così semplice da sembrare scarno – a consacrazione di un’atmosfera che ruota magneticamente sulla figura del vecchio patriarca. È lui la montagna, la vetta inarrivabile e scabra.

Tornando al dolce, l’esecuzione non è particolarmente difficile.

Vedo già il vostro sguardo perplesso ma il Mont Blanc è soprattutto molto lussuoso e costoso, ancorché squisito. Costano le materie prime che devono essere di primissima qualità (se volete sceglierne di così-così, fate a meno) ed è un vero lusso trovare il tempo per l’esecuzione.

Potete, quindi, capire perché nel film segue un applauso all’ingresso in scena: significa che qualcuno è stato pagato per trascorrere un pomeriggio in cucina a cuocere e pelare marroni, permettendo agli invitati di godere di un’esperienza rara.

Se volete provare anche voi, siate pur certi che al vostro ingresso qualcuno non saprà proprio cos’è il dolce che avete in mano, talmente è desueto, e che potrebbero guardarlo come se portaste a spasso al guinzaglio un Diavolo di Tasmania.

Comprate un chilo e mezzo di marroni enormi e lessateli per 10-15 minuti in pentola a pressione. Ricordatevi tassativamente una foglia d’alloro. Armatevi di pazienza e pelateli perfettamente liberandoli di tutta la pellicina: se volete semplificarvi la vita, lasciateli nell’acqua di cottura mentre pelate e fate in fretta, che non si raffreddino. Mettete i marroni in una pentola e copriteli di acqua e latte in uguale proporzione; aggiungete 150-200 g di zucchero, un baccello di vaniglia e un pizzico di sale, poi fateli cuocere fino a quando non sono tenerissimi. A fine cottura aggiungete un paio di cucchiai di rum d’annata (nient’altro che questo) e liberate bene la vaniglia dai semini. Passate i marroni al setaccio ed eventualmente rimettete sul fuoco per far asciugare il purè, che deve essere sodo. Lasciate raffreddare completamente. Passate il composto nello schiacciapatate, lasciando cadere i vermicelli sul piatto da dessert, dando progressivamente la forma a una montagna appuntita. Montate mezzo litro di panna freschissima cui avrete aggiunto tre cucchiai di zucchero a velo e uno di zucchero vanigliato. Spalmate il dolce di panna con una spatola, immaginandovi le piste da sci e i ghiacciai. Siate generosi e servite a parte la panna che avanza.

C’è chi ama decorarlo con pezzettini di marron glacé, con briciole di meringa e c’è chi ama aggiungere un po’ di cacao nel purè. C’è anche chi ricava una caverna centrale nella montagna e la riempie di panna. Questa che vi ho raccontato, tuttavia, è la ricetta scabra, quella che conoscevano tutte le cuoche borghesi nel 1935, all’epoca della costruzione di Villa Necchi Campiglio.
Personalmente, illuminerei la cima con scaglie di foglia d’oro, per ricordare l’ambiente in cui era apprezzato il Mont Blanc ma anche la luce del sole che tramonta sul Monte Bianco.