Angelo Carotenuto: La Grammatica del Bianco

24 Novembre 2015

La grammatica del Bianco di Angelo Carotenuto non è recentissimo: è trascorso un anno esatto dalla sua pubblicazione ma a volte, prima di scrivere una recensione o intervistare un autore, è necessario leggere.

Questo bel libretto azzurro mi era arrivato in mezzo a tanti altri e l’avevo adocchiato con piacere, perché sapevo che parlava di tennis. Poi, sapete com’è, i libri a volte rimangono su un comodino fino a quando arriva il loro turno. A volte mi piace pensare si intrufolino nelle pieghe delle tue giornate con un tempismo preciso.

“Si può essere perfetti e sbagliare lo stesso, anche se a scuola non ce lo insegnano”

La storia ruota attorno alla finale di Wimbledon, giocata tra Borg e McEnroe il 5 luglio 1980. Il protagonista, Warren Favella, è un ragazzino di undici anni dall’intensa vita interiore e con un talento per la solitudine. Per mesi si addestra a diventare un raccattapalle nel torneo più prestigioso del mondo e attraverso il tennis trova la strada per crescere. Le pagine raccontano la partita punto per punto, così come scorre davanti agli occhi di Warren, con un lavoro certosino di ricostruzione ed immaginazione da parte di Carotenuto.

“Dimmi perché si sbaglia John, com’è che non l’hai messa dentro, dimmi perché non mi vengono le parole quando la maestra mi chiede la differenza fra una montagna e una collina!”

La grammatica del bianco ha vinto il premio “Memo geremia” – dedicato alla letteratura sportiva – nella sezione ragazzi e Angelo Carotenuto ha ricevuto un premio speciale del CONI. Sarebbe tuttavia riduttivo relegarlo al ruolo di letteratura per adolescenti, perché nulla osta alla sua lettura dai dodici ai novantadue anni. Oltre alla piacevolezza del racconto, la scrittura è morbida e spassosa, restando impeccabile nella forma. Un ragazzo dovrebbe leggerlo anche solo per quest’ultimo motivo, perchè è scritto semplicemente bene.

“Il bello del tennis è proprio questo, ti dà sempre una seconda occasione. Voglio dire. È un gioco che ha previsto la possibilità di sbagliare addirittura nel regolamento, è consentito, lo perdona. L’errore è una circostanza”.

carotenuto foto

Angelo Carotenuto

Per chi non conoscesse Angelo Carotenuto, classe 1966, è un giornalista a Repubblica e scrive di sport anche sul suo blog “Il Puliciclone” ed è stato così gentile da rispondere a qualche domanda sul suo libro.

O: Nel 1980 eri un adolescente. Cosa ti rimane di quella partita e di quel periodo?

Chi è maturato in quegli anni, ha visto il proprio terreno di crescita licenziato come una parentesi di vuoto e superficialità. Quell’estate ero in vacanza a Scauri. La televisione si vedeva male e mio padre armeggiò con una padella della cucina e riuscì a potenziare il segnale dell’antenna pur di vedere la finale di Wimbledon. Quel giorno non poteva esserci nient’altro di bello da fare. Borg, in quel momento, rappresentava la Svezia che stavamo cominciando a scoprire – con gli Abba, Ingemar Stenmark e Anita Ekberg – non solo quella già conosciuta dall’élite culturali per la socialdemocrazia. Borg era un giocatore di talento e di fatica. McEnroe era l’enfant prodige capriccioso. Poi negli anni abbiamo assistito a uno stravolgimento dell’ottica.

“Ma io non voglio essere il migliore” gli risposi, “io voglio essere simpatico.”

“I migliori non sono mai simpatici.”

O: Quante volte hai rivisto quella finale Borg-McEnroe, per poterne scrivere in maniera così precisa?

In realtà solo una sola volta, al rallentatore, per scomporre ogni gesto dei tennisti. Warren, vedendo i loro gesti e gli atteggiamenti, può dedurre una lezione da ogni sfumatura.

O:Perché tu, naturalmente giochi a tennis.

No, credo di aver preso in mano la racchetta solo due volte. È un gioco che mi piace troppo per poterlo giocare, è uno sport che mi incanta. Parlo di sport perché è uno strumento per leggere il mondo, le emozioni e interpretare le cose che succedono attorno a noi. Mi aiuta ad allargare lo sguardo.  Ad esempio posso prendere spunto da un gol sbagliato per scrivere un pezzo sulla “sindrome italiana dell’avrei saputo fare meglio”.

O: Come hai trovato il tuo protagonista, Warren?

Il ragazzino nasce prima del tennis: l’idea era che attraverso lo sport avesse il coraggio di guardare in faccia il vuoto che si portava dentro. Il tennis, poi, mi pareva lo sport ideale. Agli occhi di Warren, il campo da tennis diventa il posto dove si può sbagliare, dove anche durante la finale del torneo più importante del mondo, l’errore è ammesso. In una partita devi pensare sempre al punto successivo, ricominciare sempre da capo: la seconda opportunità è certificata dal regolamento, basta pensare al secondo servizio. Una delle caratteristiche esistenziali del tennis è che l’errore è la quotidianità.

O: Per buona parte del libro, aleggia il dubbio che Warren abbia bisogno di sostegno psicologico.

Si, ma non c’è nulla di preciso perché non volevo toccare nessuna sensibilità. Alla fine Warren ha solo bisogno di attenzione e il sospetto resta relegato solo nelle parole di una maestra. È un ragazzino che ha solo bisogno di trovare il suo spazio nel mondo. Warren e il tennis sono una simulazione plastica dell’obbligo al dialogo. Ciascun tennista gioca in perfetta solitudine ma non può sottrarsi allo scambio e in mezzo c’è la rete che bisogna superare ributtando la palla in campo avversario.

O: Pensi che le ragazzine italiane saranno più motivate dopo la grande stagione di Vinci e Pennetta?

Certamente i campioni hanno questa capacità d’essere modelli trainanti. La Svezia, dopo Borg, è diventata una potenza mondiale: dopo di lui, a parte Edberg che era un tennista diverso, molti hanno avuto il suo stile.

O: Pensi che i ragazzini oggi possano sognare di fare i raccattapalle a Wimbledon?

Rispetto ai tempi del racconto, le modalità di reclutamento sono cambiate. Panatta, ad esempio, non ha mai fatto il raccattapalle e Warren decide alla fine del racconto di provare a giocare, mentre oggi i ragazzi vengono dalle scuole tennis e si entusiasmano.

“If you can meet with Triumph and Disaster/and treat those two impostors just the same” (R. Kipling)